Il Cortile Volta dell’Università di Pavia è stato preso il 17 maggio scorso da un ampio gruppo di giovani, che studiano e che lavorano, come sede delle ormai circa sessanta tende dell’Accampamento Adnan Al-Bursh; gli studenti e le studentesse palestinesi che partecipano in prima fila alla protesta hanno scelto di intitolarlo a un medico dell’ospedale Al-Shifa di Gaza catturato dall’esercito israeliano senza alcuna accusa e ucciso ad aprile dopo due mesi di prigionia e tortura.
Fin da subito, l’Accampamento si è strutturato, come avevamo proposto, attorno a un’assemblea democratica, riunita quotidianamente e dove le decisioni vengono prese a maggioranza dopo un’approfondita discussione e gli incarichi vengono assegnati a commissioni responsabili di fronte all’assemblea. La discussione politica frequente e ben organizzata ha fatto avanzare il livello di coscienza di tutti e i risultati si sono visti. Da subito si è manifestato un forte interesse a estendere la protesta verso altri settori della società, in primo luogo la classe lavoratrice a partire dal personale dell’università. Sono due caratteristiche virtuose che ci sembra manchino o non siano state sufficientemente sviluppate in alcuni accampamenti sia all’estero che in Italia.
Le richieste dell’Accampamento riguardo la politica dell’ateneo (rescissione dei legami dell’Università di Pavia con l’industria militare, non solo israeliana, libertà di discussione sulla questione palestinese negli spazi dell’università, condanna ufficiale del genocidio in corso, aiuti agli studenti e ai ricercatori palestinesi) si sono scontrate con un atteggiamento di rifiuto del dialogo da parte del Rettorato, prima attraverso il prorettore Azzoni e poi con il prof. Vecchi che lo ha sostituito. Se Azzoni aveva saputo solo recarsi di fronte alle tende il primo giorno per rivolgere minacce vaghe quanto vuote, Vecchi in modo più astuto ha menato il can per l’aia, promettendo incontri con gli occupanti che il rettore Svelto non ha mai voluto avere.
In questo mese di lotta, l’Accampamento ha organizzato una grande quantità di attività, interne ed esterne al perimetro dell’università, in sostegno alla liberazione della Palestina, così numerose che sarebbe difficile elencarle tutte. Ci limitiamo a raccontare quest’ultima settimana che mostra il carattere della mobilitazione in corso.
Siccome lunedì 17 giugno sarà riunito nuovamente il Senato accademico, si è deciso di non arrivarci impreparati per non farsi ingannare come l’ultima volta, quando il Senato si è rifiutato anche solo di discutere le mozioni proposte dal movimento. Come l’altra volta, è stato convocato un presidio durante la riunione del Senato (13:30 cortile del Rettorato); ma questa settimana è stata utilizzata per allargare il consenso, costruire alleanze e provare a rompere il silenzio che il Rettore cerca di imporre agli stessi organi accademici, oltre che agli studenti e a chi lavora in università.
Sono stati contattati tutti i senatori uno per uno, spiegando le nostre ragioni e chiedendo incontri. Si è visto che ci sono salutari fratture tra i docenti, come già avevamo notato in occasione del “Controsenato” organizzato nel Cortile, una sorta di assemblea con il personale dell’università in cui alcuni docenti (ancora troppo pochi) si sono esposti appoggiando il movimento del tutto o in parte. Sappiamo di una lettera critica firmata da alcuni docenti, sappiamo di consigli di dipartimento che si sono schierati a favore delle rivendicazioni dell’Accampamento. La complicità dell’Italia e anche del suo sistema universitario con lo Stato colonialista e genocida d’Israele non piace a molti, ma qualcuno doveva alzarsi e dirlo chiaramente.
Si sono raccolte oltre 1200 firme tra gli studenti di Pavia, chiedendo di firmare con l’indirizzo email d’ateneo, sotto una petizione di sostegno all’Accampamento. In questi giorni del resto continuano ad unirsi nuovi giovani alla protesta, ci sono facce nuove ogni settimana ed è chiaro che il movimento ha fatto breccia in uno strato più largo della solita fascia di attivisti.
Si è ottenuto l’appoggio dell’Associazione Dottorandi (ADI), che è significativo anche perché è uno dei settori più sfruttati del sistema della ricerca, che sarebbe facile ricattare e spingere a non pronunciarsi su questo tema. L’intervento in assemblea del portavoce ADI di Pavia è stato commovente.
Diversi lavoratori e lavoratrici del sistema accademico (di Pavia e di altri posti) hanno partecipato attivamente alla mobilitazione fin da subito, ma anche la gestione esemplare del Cortile Volta, organizzatissimo e ordinato, ci ha permesso di attirare la simpatia di chi lavora quotidianamente negli stessi luoghi dove abbiamo piantato le tende. Questo è molto importante perché un’occupazione che si alieni l’appoggio di chi lavora lì non può mettere radici.
Venerdì sera, il movimento ha lanciato un’iniziativa di controinformazione in centro, montando una sorta di finto studio televisivo tra piazza Vittoria e l’angolo del Demetrio, proiettando video sul genocidio in corso e leggendo dei testi satirici. Calcoliamo che sommato a un corteo e tre cortei interni, due presidi in piazza, due presidi davanti al Rettorato, due contestazioni a ministri, e addirittura una “biciclettata col rettore” e una partecipazione a una staffetta universitaria (vinta da una delle nostre squadre con kefiah e bandiere!), questo fosse il 13° momento di mobilitazione fuori dal Cortile prodotto dall’occupazione. Non si vedeva un movimento giovanile così tenace, duraturo, combattivo da molti anni in questa città.
L’Accampamento non può durare per sempre nella forma che ha avuto in questo mese. Nessuno tra le tende nutre questa illusione. Dovrà trovare le forme giuste per proseguire e, come primo passo, per vincere il muro di ignavia sollevato dalle autorità accademiche. Del resto, nessuno si illude che la liberazione della Palestina si risolva tra le aule universitarie di Pavia; siamo solo parte di un movimento più ampio, sia dal punto di vista geografico sia da quello politico: in tutto il mondo ci sono accampamenti studenteschi per la Palestina, e in tutto il mondo le persone che si mobilitano in queste lotte stanno traendo conclusioni rivoluzionarie sulla necessità di una vera e propria rivoluzione che cambi il mondo.
E per questa rivoluzione, ormai lo sappiamo, serve un partito comunista rivoluzionario.
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